«Di che cosa stavate discutendo lungo la via»? (Mc.9,30.37)»

II Convegno
Anzio 11 Giugno 2017
Riflessione: «Di che cosa stavate discutendo lungo la via a cura di:
Don Danilo Spagnoletti Parroco Chiesa S. Angela Merici in Roma.

Vangelo: Mc 9,30-37
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

9:30 k¢ke‹qen {di là} ™xelqÒntej {partiti} pareporeÚonto di¦ {attraversarono} tÁj {la} galila…aj {galilea}, kaˆ {e} oÙk {non} ½qelen {voleva} †na {che} tij {si} gno‹ {sapesse}: | {poi gesù}
9:31 ™d…dasken {egli istruiva} g¦r {infatti} toÝj {i} maqht¦j {discepoli} aÙtoà {suoi} kaˆ {-} œlegen {dicendo} aÙto‹j {loro} Óti {-} Ð {il} uƒÕj {figlio} toà {dell’} ¢nqrèpou {uomo} parad…dotai {sta per essere dato} e„j {nelle} ce‹raj {mani} ¢nqrèpwn {degli uomini}, kaˆ {ed} ¢poktenoàsin {essi uccideranno} aÙtÒn {l’}, kaˆ {ma} ¢poktanqeˆj {essere stato ucciso} met¦ {dopo} tre‹j {tre} ¹mšraj {giorni} ¢nast»setai {risusciterà}.
9:32 oƒ {essi} d {ma} ºgnÒoun {non capivano} tÕ {le} ·Áma {parole}, kaˆ {e} ™foboànto {temevano d’} aÙtÕn {interrogarlo} ™perwtÁsai. | {sue}
9:33 kaˆ {-} Ãlqon {giunsero} e„j {a} kafarnaoÚm {capernaum}. kaˆ {-} ™n {in} tÍ o„k…v {casa} genÒmenoj {quando fu} ™phrèta {domandò} aÙtoÚj {loro}, t… {di che} ™n {per} tÍ Ðdù {strada} dielog…zesqe {discorrevate};
9:34 oƒ {essi} d {-} ™sièpwn {tacevano}, prÕj {tra} ¢ll»louj {di loro} g¦r {perché} dielšcqhsan {avevano discusso} ™n {per} tÍ Ðdù {via} t…j {chi} me…zwn {il più grande}. | {fosse}
9:35 kaˆ {allora} kaq…saj {sedutosi} ™fènhsen {chiamò} toÝj {i} dèdeka {dodici} kaˆ {e} lšgei {disse} aÙto‹j {loro}, e‡ {se} tij {qualcuno} qšlei {vuol} prîtoj {il primo} enai {essere} œstai {sarà} p£ntwn {di tutti} œscatoj {l’ ultimo} kaˆ {e} p£ntwn {di tutti} di£konoj {il servitore}.
9:36 kaˆ {e} labën {preso} paid…on {un bambino} œsthsen {mise} aÙtÕ {lo} ™n {in} mšsJ {mezzo} aÙtîn {a loro} kaˆ {poi} ™nagkalis£menoj {prese in braccio} aÙtÕ {lo} epen {disse} aÙto‹j {loro}, | {e}
9:37 Öj ¨n {chiunque} žn {uno} tîn {di} toioÚtwn {questi} paid…wn {bambini} dšxhtai {riceve} ™pˆ tù {nel} ÑnÒmat… {nome} mou {mio}, ™m {me} dšcetai {riceve}: kaˆ {e} Öj ¨n {chiunque} ™m {me} dšchtai {riceve}, oÙk {non} ™m {me} dšcetai {riceve} ¢ll¦ {ma} tÕn {colui che} ¢poste…lant£ {ha mandato} me {mi}.

    1. Introduzione

In questo punto del Vangelo di Marco, Gesù, mentre prima girava i villaggi e le città e annunciava il vangelo del regno, ora decide di dedicarsi di più alla formazione del gruppo dei suoi discepoli, perché ormai le voci che venivano da Gerusalemme erano allarmanti e certamente c’era il rischio grave che venisse preso e condannato o forse lapidato per una rivolta. Per questo desidera che non si sappia che sta attraversando la Galilea, in modo che non accorra molta gente portando malati.
Nella formazione dei discepoli insiste su alcuni particolari: prima di tutto cerca di liberarli dalla convinzione che avevano che la missione che stavano compiendo avrebbe avuto pieno successo, per cui sarebbero diventati persone importanti per la vita sociale di quel tempo. I discepoli, infatti, lo stavano seguendo secondo le loro prospettive.
Il capitolo 9 si era aperto con l’annuncio che il Regno di Dio sarebbe venuto con potenza, seguito dalla Trasfigurazione (Mc 9,2-8), quando Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni per salire sul monte, pregare e riflettere sulle Scritture.
La teofania della Trasfigurazione non era stata compresa dai discepoli, i quali tennero per sé i propri dubbi sulla resurrezione, mentre esposero solo a Gesù una domanda sul ritorno di Elia (Mc 9,9-13).
Segue la guarigione prodigiosa di un fanciullo posseduto da uno spirito muto e sordo (Mc 9,14-29) che i nove discepoli restati a valle non erano riusciti a liberare.
Gli apostoli tutti allora chiedono a Gesù il motivo di tale insuccesso e Gesù risponde ribadendo la necessità del digiuno e della preghiera per questo genere di esorcismi. Ma di fatto quello che era emersa era stata la evidente scarsa fede e differenti prospettive messianiche del gruppo dei discepoli.
Per questo Gesù provvede a correre ai ripari!
Gesù si era dedicato con una cura particolare alla formazione dei suoi discepoli, ma in fondo non è riuscito a convincerli, perché non avevano accettato ancora il vangelo.
Poi dopo la resurrezione, dopo l’incontro con Gesù risorto, è iniziato un nuovo cammino; ma un cammino che deve riprendere costantemente da capo, perché ogni generazione deve riscoprire la verità del vangelo.
Dopo questo miracolo il gruppo si rimette in viaggio verso nord, verso Cafarnao, attraversando la Galilea. Gesù non vuole che alcuno lo sappia perché ormai sta per partire verso Gerusalemme dove incontrerà la morte e deve preparare i suoi discepoli a questo evento sconvolgente.
Egli dice loro una seconda volta che avrebbe dovuto essere consegnato nelle mani degli uomini e il suo destino sarebbe stato la morte e la risurrezione.
I discepoli però non capiscono le parole di Gesù. Tanto è vero che giunti a Cafarnao devono confessare al loro maestro che durante la strada avevano discusso tra di loro su chi fosse il più grande. Gesù dona loro un nuovo insegnamento, il più grande è colui che serve e la misura del regno di Dio è l’accoglienza dei piccoli.
Gesù ha scelto gente comune tra i suoi discepoli, persone che hanno tutte le ambizioni umane, che non sono ancora completamente partecipi del suo Mistero d’amore. In loro prevale ancora una mentalità legata all’individualismo. Per questo abbiamo anche noi qualche possibilità di fare tesoro di questo insegnamento che viene dalla Scrittura e cambiare mentalità.
Gesù ha appena esposto il disegno del Padre che passa per la dimensione della sofferenza ma i discepoli denotano di avere in testa un’idea di Messia e di Regno di Dio abbastanza diversa da quella di Gesù.
L’abbinamento di queste due espressioni (non capire e avere timore di chiedere spiegazioni) fa comprendere chiaramente che in realtà essi avevano compreso bene la lezione precedente, ma non volevano accettarla.

        1. Gesù in Galilea e i motivi dell’anonimato

       Il brano è di complessa interpretazione anche a causa di una non proprio felice scelta dei termini usati nella traduzione.
      Gesù decide di portare i suoi discepoli nella regione di Cesarea di Filippo, terra pagana: parte ed attraversa la Galilea, ma vuole rimanere in incognito, perché a Gesù interessa continuare l’insegnamento ai discepoli.
      Il primo insegnamento è fallito, i discepoli hanno mostrato di non volerlo ascoltare assolutamente, come ha dimostrato l’intervento di Pietro (cfr. Mc 8,27-35).
      Gesù riprende di nuovo l’insegnamento ai discepoli perché è importante la formazione del gruppo; il gruppo, infatti, dovrà proseguire la missione dopo la morte di Gesù.
      Formare il gruppo, lo staff, l’equipe, la squadra, è decisivo per compiere una qualsiasi cosa. Ma la formazione del gruppo non cade sulle qualità dei singoli ma in particolare sulla capacità di comprendere e sostenere la logica del Regno dei Cieli. E quindi prima bisogna avere assolutamente le idee chiare in proposito…!
      Gesù non è uno sprovveduto, e ad un certo punto, quando capisce che lui rischia, che morto lui tutto finisce, dall’esterno (miracoli, pranzi, parabole, moltitudini, ecc.) Gesù si concentra all’interno (forma gli “operai” della prima linea, gli apostoli).
      Il rifiuto viene preannunciato per la seconda volta: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
      Ma chi sono questi “uomini” che lo rifiutano? Certo non sono i discepoli che lo stanno ad ascoltare. Si tratta però di persone che loro conoscono bene, perché Gesù ha dovuto averne a che fare già tante volte in loro presenza: dapprima lo hanno rifiutato i suoi familiari (Mc 3,20-21), poi i suoi paesani (Mc 6,1-6), poi le autorità religiose (Mc 7,1; 3,6).
      E’ tutta gente ebrea conosciuta, ma la storia è sempre la stessa. Perché quando Gesù andrà dai pagani sarà la stessa cosa: qualcuno gli crederà ma molti lo rifiuteranno anche lì (Mc 5,17).
      La Galilea è terra di rivoluzioni: non c’è, quindi, scenario migliore che quello di Cafarnao, nella tranquillità della quiete domestica, per cercare di nuovo di far ragionare i discepoli e far comprendere loro che il Regno di Dio non risponde alle logiche del potere, dell’autorità, dell’incarico da svolgere o dell’importanza di uno rispetto all’altro.
      Perché il Regno non mette al centro la figura del Figlio di Dio (quello verrà rivelato solo sul Calvario, ovvero appeso alla croce), ma quella del Figlio dell’uomo: non il divino rivelatosi con potenza all’umanità, ma l’umanità resa divina dalla potenza di Dio, questa è la prospettiva con cui i discepoli devono guardare al Regno.
      Così, lasciato il monte Tabor Gesù e i suoi discepoli tornano a nord, in Galilea, il teatro della predicazione di Gesù. Però ormai la sua predicazione a tutto il popolo è finita. Egli si sta preparando ad andare a Gerusalemme, quindi vuole che nessuno sappia del suo passaggio nella regione.
      C’è un avvenimento molto importante che sta per accadere ed essi devono essere preparati a viverlo: Gesù ripete l’annuncio della passione che aveva già dato in Marco 8,31. Le parole che Gesù usa sono riprese dalle profezie di Isaia riguardanti il Servo Sofferente.
      La frase è piuttosto enigmatica: “Figlio dell’uomo” è il termine con cui Gesù ama indicare se stesso nei Vangeli e si rifà a un uomo misterioso mandato da Dio in cui si parla in Daniele 7,13; il verbo è al passivo e viene comunemente inteso come un azione compiuta da Dio.
      E’ Dio stesso che consegna il Figlio dell’uomo in mano agli uomini. Questi uomini non sono più i pagani ai quali Dio in antico aveva consegnato il popolo ribelle, ma sono lo stesso popolo di Dio che non ha saputo riconoscere il suo Inviato. La situazione ha però una via di uscita: vi è l’annuncio della risurrezione.

                1. L’annuncio della sua morte e la reazione dei suoi discepoli

               A questo punto si può pensare o che i discepoli avessero paura di approfondire l’argomento, o che forse in modo più verosimile ritengono che, come già Pietro nel capitolo precedente (Mc 8,32), rifiutino di comprendere e fare propria la logica dell’agire di Gesù.
              Quindi non affrontano nemmeno il problema. Sullo sfondo di queste parole potrebbe esserci la comunità di Marco che non riusciva ad accettare la via della croce percorsa dal Figlio dell’uomo.
              Il primo annuncio della Passione non aveva funzionato:
              Gesù, nel contesto del cosiddetto «segreto messianico» vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuto in Galilea), ma nell’obbedienza a Dio che lo consegna alla croce.
              Gesù considera la sua missione pubblica ormai esaurita e vuole dedicarsi alla formazione dei discepoli, prepararli progressivamente alla realtà dolorosa della sua morte. L’uso dell’imperfetto in entrambi i casi indica un’azione ripetitiva da parte di Gesù.
              Questo secondo esplicito annunzio di passione (Mc 8,31 e 10,32-ss.) è secondo i critici, per la sua semplicità, il più antico, e probabilmente siamo di fronte ad un autentico detto di Gesù, privo di ritocchi cristiani post-pasquali.
              C’è una certa progressione rispetto al primo annuncio: si insiste infatti non più sulla necessità della passione, ma sulla imminenza e tragicità di essa.
              L’esser consegnato (dal greco paradídōmi) mostra un verbo al passivo, senza specificazioni dell’agente. Dal versetto 9,31 in avanti il verbo acquista un’importanza sempre maggiore (vedi 10,33; 13,9.11.12; 14,10.11.18.21.41.42.44; 15,1.10.15) in riferimento alle sofferenze di Gesù e dei suoi discepoli.
              L’uso ricorrente alimenta l’idea che è Dio il vero agente dietro la passione e che ogni cosa si svolge secondo il piano di Dio. Il verbo dunque indica l’agire di Dio, anche perché pur essendo un annuncio di morte è soffuso di speranza (Resurrezione). L’agire di Dio non finisce mai nella morte, ma sempre nelle vita.
              Essere consegnato o cadere nelle mani degli uomini” è un’espressione biblica che indica una prova tremenda, in cui il malcapitato può aspettarsi qualunque crudeltà e non può neppure far appello alla pietà o alla misericordia come farebbe con Dio (cf. 14,41; Sir 2,18; 2 Sam 24,10-16).
              Gesù non scende nei particolari del patire, o su chi siano i responsabili della morte, anzi, non la collega nemmeno ad un popolo particolare.
              Infatti Gesù sta pensando alla missione tra i pagani: come nel popolo d’Israele ci sono i rappresentanti del potere che rifiutano il modello di umanità che Gesù presenta, lo stesso ci saranno, in altre parti, i rappresentanti di altri poteri.
              Quelli che seguono il suo cammino sappiano che non solo all’interno della nazione di Israele, ma anche fuori di questi limiti geografici, ci saranno altre strutture di potere, che si alzeranno contro il modello di uomo che Gesù propone.
              Gesù adopera di nuovo l’espressione “Figlio dell’uomoche qui ha un valore inclusivo: quello che riguarda Gesù è anche proponibile ai suoi seguaci.
              È qui interessante come Gesù presenta l’annuncio. Propone, da una parte, il Figlio dell’uomo e dall’altra parte gli “uomini”: il Figlio dell’uomo è quello che viene a dare la vita, gli “uomini” sono quelli che gliela tolgono.
              C’è una opposizione radicale tra un uomo che dà la vita e certi uomini che questa vita la disprezzano fino al punto di uccidere colui che la vuole diffondere agli altri.
              Chi sono questi “uomini”? In maniera generica, anonima, riguarda chiunque, nella storia, rifiuta l’amore che Gesù ha testimoniato con la vita e soprattutto la capacità di comunicare vita agli altri.
              Gesù sta indicando ai suoi discepoli, che ci saranno nella storia anche degli “uomini” che non conoscono la pienezza di vita, che a loro non interessa, e che non vogliono sapere nulla di tutto questo; per loro risulta odioso, intollerabile, che ci siano persone che annunciano l’umanità di Gesù.
              Gesù ci insegna che ci sono possibilità di superare gli ostacoli che, nella storia, impediscono la promozione umana. Questo sì che permette di uscire da una situazione di ignoranza e di miseria che poi porta al fanatismo di ogni genere.
              Questi “uomini” non accettano quel modello di umanità; il termine è stato già usato nel brano di Cesarea di Filippo (la gente chi dice che io sia?).
              In quel caso Gesù stava parlando in maniera generica, in questo intende qualcosa di molto più preciso: sono i nemici dell’umanità, sono quelli che non tollerano che il messaggio di Gesù si possa diffondere.
              In questo annuncio della passione, si parla per due volte della morte, c’è come una accentuazione da parte di Gesù: come per insistere sulla violenza che questi uomini possono adoperare. Gesù in questa maniera sta svuotando di significato la morte, perché, per chi ama la vita e aderisce a questo modello di vita, la vita è un’esplosione anche nella morte.
              Gesù torna sul discorso della morte perché vuole convincere i discepoli che questa morte non è una sconfitta; il gruppo pensa che la morte sia una sconfitta perché con essa crollano tutti i sogni, crollano tutte le speranze, tutte le attese di gloria.
              Gesù vuol convincere che è proprio il contrario. Se la morte è espressione massima dell’amore, questa morte non mette fine alla vita, ma la fa rinascere con una forza molto ma molto più grande.
              La reazione dei discepoli però è di tutt’altra prospettiva. Evidentemente gli Apostoli sono persone dallo spiccato senso pratico…!
              Appena saputo che Gesù sarebbe morto da lì a poco, stanno già preparando la successione alla guida del gruppo.
              Dopo la grande e tragica rivelazione di Gesù sulla sua fine imminente e cioè che sarebbe stato ucciso e dopo tre giorni sarebbe risorto, i suoi amici più intimi, stavano pensando a loro stessi e alla carriera! E naturalmente, allorché Gesù li interroga su cosa stessero dicendo lungo la via, si guardano bene dal dirglielo. Poi, quando Gesù li interroga su cosa stessero dicendo tra di loro, tacciono di nuovo perché evidentemente si vergognano di rivelare quali aspirazioni abitassero i loro cuori, proprio dopo aver udito il grande annuncio della Passione. Aspiravano ad essere grandi, ma Gesù rivela loro che l’unico modo per essere grandi è diventare piccoli:
              Si apre allora la competizione per la successione: Pietro è senza dubbio il candidato favorito. Certo, però, tutti sanno che un Governo ha bisogno di stabilità finanziaria ed economica; la storia passata e recente ci ha insegnato che un ministro dell’economia scaltro, senza troppi scrupoli, indulgente quanto basta, spregiudicato quanto basta, è il segreto della tenuta di un governo nel lungo periodo: allora Giuda è il meglio che c’è sul mercato…
              I discepoli di Gesù sono ancora troppo carnali, pensano secondo la carne, progettano secondo la carne, litigano secondo la carne. Nel Regno di Dio invece si deve vivere da esseri spirituali, pensando secondo lo Spirito, agendo secondo lo Spirito, litigando secondo lo Spirito per le sole cose dello Spirito.
              Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. Ma l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito. L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo (1Cor 2,6-16).
              Gesù, lungo la strada della Galilea, con i discepoli stava insegnando loro il senso e la missione del Messia; non è tanto un annuncio della sua passione quanto un insegnamento che avrebbe dovuto illuminare l’animo dei discepoli; lo fa utilizzando le parole che troviamo nel libro di Isaia (cap. 52 e 53) dove si parla delle sofferenze del Servo di Jahwé, ma i suoi non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
              Ci sconforta considerare l’uomo sempre così aperto a qualsiasi “sapere”, disponibile a tutto ciò che ha sapore di novità, che invece si chiude in se stesso nella proprie convinzioni di fronte al mistero della sofferenza e della morte.
              Il rifiuto è totale perché non capendo neanche si chiede, anzi abbiamo timore che chiedendo si riceva risposte che scombinano il sistema acquisito di certezze.
              Gesù, quindi è in difficoltà con i suoi discepoli. Non ne vogliono sapere di comprendere chi egli sia e quale sia il suo programma. L’insegnamento è chiaro ed esplicito, però, scrive l’evangelista, “essi non capivano queste parole”. L’ideologia nazionalista, il loro ideale di successo è tale che impedisce loro di comprendere le parole molto chiare di Gesù.
              Hanno paura che Gesù confermi quello che loro hanno capito, quindi è vero, capivano ma non accettavano. Quindi non è che non capivano, non accettavano quello che Gesù diceva.
              Vanità, orgoglio e presunzione conducono inaspettatamente a capitolare, l’umiltà e la mansuetudine nel servizio temprano la persona e la predispongono all’ascesa verso le mete alte e
              al contempo favoriscono la concreta maturazione della persona. E in questa prospettiva si diventa sempre più irreprensibili nella condotta e in grado di agire in modo che la coscienza non debba rimproverarci nulla e rispondere così agli sberleffi immancabili di chi invidia la nostra posizione di sevizio e di donazione.
              Loro, come discepoli, manifestano una grande incapacità, perché il discepolo è tale in quanto si confronta con il maestro. Loro, invece, hanno paura di confrontarsi perché intuiscono che con questi discorsi, con queste parole che Gesù sta dicendo, finiscono le loro attese di restaurazione per la loro nazione, di egemonia del loro popolo sugli altri popoli.
              Intuiscono che stanno crollando le sicurezze che essi si sono creati e allora meglio non chiedere.
              Continuano nella loro posizione ostinati nel loro modo di pensare, per non crollare del tutto. Ormai si intuisce che sono vacillanti, meglio stare zitti perché non arrivi il colpo finale, il colpo di grazia.
              In questo discorso, la preoccupazione principale dei discepoli, il fatto che stiano zitti, che abbiano timore a interrogare Gesù, non è di lavorare per il bene degli altri, come Gesù sta chiedendo attraverso le condizioni che ha già posto e da quello che ha insegnato ai discepoli, ma la preoccupazione dei discepoli è come possono raggiungere la gloria della loro nazione, come possono diventare il popolo più importante degli altri. Una tentazione che può prendere anche noi cristiani quando pensiamo che la nostra associazione, la nostra comunità sia la migliore…!
              Per loro, che Gesù parli che dopo tre giorni risorgerà o che c’è una vita dopo la morte, non ha alcun senso se per loro la morte di Gesù è la fine delle loro attese ed il crollo di tutti i loro sogni di grandezza.
              I discepoli dimostrano una incomprensione assoluta e l’evangelista vuol far capire che, a questo gruppo, non entra in testa quello che Gesù insegna: l’esistenza di una società nuova, dove si possa veramente vivere in maniera bella con tutti.
              L’unica possibilità di creare qualcosa di nuovo è il prendersi tutti la responsabilità, entrando in un rapporto di uguaglianza e di solidarietà con tutti.
              Mentre nel primo annuncio della Passione almeno Pietro ha avuto il coraggio di contestare a Gesù la sua predizione (8,32), qui i discepoli non fanno neanche una domanda.
              Invece di trarre profitto dagli insegnamenti di Gesù i discepoli stanno regredendo, e così essi diventano sempre più esempi negativi in contrasto con l’esempio positivo offerto da Gesù.

              1. A Cafarnao Gesù li interroga e i discepoli non rispondono per la seconda volta

               Cafarnao è il luogo dove è incominciata l’attività di Gesù e dove si è creata la sua prima comunità.
              A Cafarnao c’è la casa di Gesù, dove Gesù si è seduto a tavola con i pubblicani, con i peccatori. A questa tavola si sono seduti anche questi discepoli provenienti dal giudaismo (possiamo immaginare la loro difficoltà iniziale quando furono costretti da Gesù a condividere la mensa con i peccatori e con i pubblicani (cfr. Mc 2,15).
              Se stiamo al testo, dal punto di vista letterale, l’evangelista dice “giunsero a Cafarnao”, cioè Gesù con i discepoli; poi, però quando “lui fu in casa”, non dice che i discepoli entrarono in casa.
              Dal punto di vista pratico ovviamente saranno entrati, però con questa espressione poco elegante stilisticamente l’evangelista vuole far comprendere che i discepoli non seguono Gesù veramente, non si sentono appartenenti alla sua comunità (non sono “entrati in casa”), non si sentono legati ad una comunità che è aperta a tutti, dove non c’è privilegio per nessuno, dove non ci sono gerarchie.
              La motivazione che ha spinto l’evangelista a far comprendere che i discepoli non sono realmente entrati nella casa, diviene chiara quando leggiamo di che cosa hanno discusso per la strada.
              Gesù stesso prende l’iniziativa: «Di che cosa stavate discorrendo per la strada?».
              Ecco, questa indicazione ‘per la strada’ è sintomatica: “Per la strada” è il luogo della semina infruttuosa: il seme viene gettato per terra, ma vengono gli uccelli e subito lo raccolgono.
              Gesù, spiegando queste immagini, diceva che era il Satana che rendeva inutile la parola. L’immagine del Satana in questo Vangelo è l’immagine del potere, del successo.
              La ripetizione delle parole “per la strada” sono importanti. Gesù sta percorrendo la strada che lo porta alla croce e i discepoli per quella stessa strada sembrano non capire.
              La teologia rabbinica aveva suddiviso in sette classi gli abitanti del paradiso e discuteva su chi sarebbe entrato nella classe più alta. Anche a Qumran si era elaborata una sorta di gerarchia nella vita dell’aldilà. In Marco 10,37 i figli di Zebedeo chiederanno a Gesù di occupare i posti più importanti nel regno dei cieli.
              La lite dei Dodici poteva riguardare queste gerarchie della vita dopo la morte o più semplicemente la preminenza all’interno del gruppo.
              L’evangelista Marco usa lo stesso verbo siōpáō (tacere) in parecchi contesti diversi (vedi 3,4; 4,39; 10,48; 14,61). Il parallelo più vicino a questo si trova in 3,4, dove il pubblico presente nella sinagoga di Cafarnao è ridotto ad un imbarazzato silenzio dall’insegnamento di Gesù riguardo al fare del bene di sabato.

              1. Discutevano chi fosse il più grande

               Qui sembra che i discepoli si rendano conto della contraddizione tra l’insegnamento di Gesù e l’oggetto della loro discussione: «Chi fosse più grande».
              La forma comparativa dell’aggettivo mégas («maggiore») in questo contesto ha un senso superlativo. Dobbiamo supporre che i discepoli stessero discutendo sull’ordine di preminenza all’interno del loro gruppo al momento presente.
              In una società gerarchica in cui la posizione e l’onore erano valori molto importanti, l’argomento rappresentava una cosa del tutto naturale e degna di essere discussa.
              I discepoli tacciono perché hanno il senso di colpa, perché sanno che hanno fatto qualcosa che Gesù non approva.
              Gesù ha chiesto di cosa stessero discorrendo, invece loro hanno proprio “discusso”, quindi un discorso animato.
              Gli Apostoli hanno fatto un discorso per conto loro, creando di fatto una spaccatura forte tra Gesù, che è il maestro, e il suo gruppo.
              Questo Vangelo ci mostra dunque due modi di tacere dei Dodici, dettati da due atteggiamenti diversi: prima, quando Gesù annuncia la sua prossima fine, tacciono perché non capiscono e non osano far domande. E forse non le fanno proprio per il timore di capire ciò che non vogliono capire.
              Poi, quando Gesù li interroga su cosa stessero dicendo tra di loro, tacciono di nuovo perché evidentemente si vergognano di rivelare quali aspirazioni abitassero i loro cuori, proprio dopo aver udito il grande annuncio della Passione.
              Nella casa di Gesù, non c’è posto per quelli che ancora alimentano ideologie basate sul potere, sulle gerarchie o sulle divisioni. Sono loro stessi che non si trovano al loro posto lì dentro, da qui il silenzio imbarazzato.
              Loro vanno comunque per la loro strada, nonostante Gesù abbia fatto un insegnamento preciso. Gesù è positivo nel modo di avvicinarsi ai discepoli, pensa che abbiano parlato di qualcosa di interessante.
              L’evangelista interviene per dire “sulla strada avevano discusso”, non “parlato”. Qui c‘è una sfumatura nei verbi che in greco risulta ancora più evidente (dialoghizo, dialogare – dialego, disputare, fare dialettica).
              Il verbo dialogízomai generalmente è usato in senso privato e neutro di «conversare, discorrere, ragionare», ma Marco lo usa sovente nel senso pubblico e negativo di «dibattere» o «discutere animosamente» (vedi 2,6.8; 8,16.17; 11,31). Il senso in cui è usato qui e nel versetto seguente probabilmente è sufficiente a spiegare l’imbarazzo che i discepoli mostrano con il loro silenzio in 9,34: qui si è fatta polemica (dialettica) sul tema su chi è il più grande, alimentando confusione, dibattito, e chissà, forse urla e prepotenze…
              Gesù vuole riportare questo gruppo al suo insegnamento, affinché si inserisca sulla sua strada e lasci l’altra strada, quella dell’aspirazione al potere, che è quella fallimentare: quando si comincia a discutere su chi è il più grande, vuol dire che quella storia di rinnegare sé stesso e caricarsi la croce non interessa affatto, non tocca minimamente.
              Ognuno di noi ha l’indole innata di voler primeggiare. Chi da bambino non avrebbe voluto essere il primo della classe, ricevere il voto migliore dalla maestra insieme alle sue attenzioni, avere il regalo più bello a Natale da mostrare agli amici.
              Il Vangelo ci rivela che noi uomini non siamo privi di questioni che pure trattiamo ma nel riserbo e con una certa vergogna: Gesù si accorge del parlottare lungo la strada che niente aveva a che vedere col suo insegnamento, sa che gli argomenti che interessavano i discepoli stavano andando esattamente nella direzione opposta al suo insegnamento. Ma, sollecitati, i discepoli tacevano.
              Sembra incredibile eppure siamo capaci di praticare una religione, sentirsi “fedeli”, parte di una Chiesa ma nella concretezza dei fatti non condividerne le convinzioni e gli insegnamenti. Siamo fatti così e preferiamo nascondere, anche a noi stessi, tacere certe contraddizioni, sfasature, incomprensioni, incoerenze.
              Non siamo capaci di giustificarci e neppure di tentare una cambiamento: “Sono fatto così e se mi vuole Gesù mi prende come sono!”.
              Non conta l’insegnamento e l’esempio del Signore, la storia personale ci condiziona a tal punto da non vedere oltre la punta del naso, da non superare l’orizzonte dei nostri personali desideri, abbiamo creato “un cerchio intorno a noi”.
              Evitiamo poi di atteggiarci a moralisti e giudicare quei pover’uomini non dissimili al nostro pensare… si sono lasciati prendere dall’egoismo, dalla carriera (anche religiosa e parrocchiale), sono superbi, orgogliosi, presuntuosi…
              Proviamo a immaginare un regno ben organizzato e il desiderio di parteciparvi attivamente, di avere un ruolo politico magari in qualche ministero. Il problema è la manifestazione del peccato profondo del genere umano, quello che abbiamo chiamato peccato originale: la voglia di “potere”, di diventare come Dio (Gn 3,5), un Dio grande e possente.
              Gesù, invece aveva insegnato che Dio non è né grande né potente, piuttosto viene consegnato nelle mani degli uomini perché gli uomini avessero la possibilità di prendere atto del loro delirio di potere arrivando ad ucciderlo. Ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà, così che la grandezza di Dio si potesse manifestare una volta raggiunta la piccolezza, quando messosi a servizio di tutta l’umanità e sopraffatto da essa, gli uomini avessero esaurito ogni altra possibilità se non quella di un cambiamento di rotta.
              Presi nella logica dell’individualismo cerchiamo in ogni modo di gareggiare a prendere i primi posti.
              Non comprendiamo e non riusciamo entrare nella logica che ogni ruolo richiama la logica di servizio.
              Nelle comunità religiose difficilmente cediamo un ruolo, un ufficio lo si ritiene di proprietà esclusiva. Dobbiamo veramente crescere nella logica del servizio come dono al fratello.

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              2. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».

               L’atto di sedersi (in greco kathízō) e di chiamare i Dodici sembra fuori luogo, poiché il gruppo si trova già raccolto in casa. Marco vuole forse sottolineare la solennità del momento e l’atteggiamento di Gesù come vero maestro.
              Gesù si trova nella casa, figura della comunità, e si mette seduto. Questo atteggiamento vuol dire: la dimora stabile di Gesù è la casa di persone che si amano come lui ci ama.
              Non c’è altra dimora per Gesù, non luoghi santi, santuari, cattedrali, Gesù prende dimora in una casa dove esiste una comunità di fratelli, che vivano secondo il suo stile di vita.
              La frase che Gesù pronuncia si trova in diversi luoghi del Vangelo con sfumature diverse. Ciò che conta è sottolineare la contrapposizione primo-ultimo di tutti e l’accostamento del servitore, che non richiama soltanto il servizio a tavola.
              Gesù stesso ha applicato a se stesso questa frase, è stato l’ultimo e si è messo a servizio di tutti. L’appellativo servus servorum Dei, con cui il Papa si definisce, trova qui la sua origine.
              E’ strano, è una casa, una casa palestinese, non è molto grande, perché Gesù deve chiamare?
              Da questo particolare sembra che i Dodici stessero sparsi e Gesù li chiama come farebbe qualsiasi mamma con i figli per invitarli a tavola, mentre questi sono impegnati con qualche gioco e non hanno voglia di staccarsene…
              I discepoli seguono Gesù, ma non lo accompagnano, non gli sono vicini interiormente. Gli sono vicini fisicamente, ma la loro mentalità è lontana.
              Gesù è il Dio che per amore si mette a servizio degli uomini. Gesù ha detto che il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, loro invece pensano soltanto a comandare. Ecco perché li deve chiamare i Dodici, perché sono lontani.
              Gesù accetta che nella comunità ci sia il “primo”, il più vicino a lui:  “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”.
              Quindi nella comunità non ci sono idee di grandezza, non c’è nessuna persona più importante, più grande, ma ci sono persone più vicine a Gesù. Quali sono? Quelle che si mettono a servizio di tutti. Quelli che, liberamente e volontariamente, mettono la loro vita a servizio degli altri.
              «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti»: sono parole a noi molto familiari, diventate quasi degli slogan nel mondo ecclesiastico; le cantiamo nelle liturgie e ci sentiamo buoni quando le diciamo. E così anche per queste accade, come del resto per le altre parole, che più sono ripetute e meno si comprendono in quel che dicono o intendono dire davvero, cioè sul serio, e se ne sente meno il vero mordente.
              Con il risultato che tutti diciamo che, se comandiamo, è per servire, e che tutto quel che facciamo è, appunto, per servire, o che il servizio è la stella polare del nostro agire di ogni giorno.

              Ma servire chi?

              Innanzitutto il termine “servitore” è in greco “diaconos” non “dulos (che vuol dire schiavo). Il diacono è colui che volontariamente (contrariamento allo schiavo) si mette a servizio degli altri.
              Ci si dimentica spesso che essere ultimo, vuol dire, appunto, essere ultimo: cioè che ti passano davanti tutti, ma proprio tutti. Il che significa: non solo quelli bravi, quelli che meritano di passarti avanti, quelli ai quali tu sei disposto a cedere volentieri il posto, ma anche quelli che non lo meritano, gli incapaci, i mediocri, i raccomandati.
              Di più, ti passano davanti i disonesti, che mettono alla prova l’onestà del giusto con violenze di vario genere, fisiche, morali o psicologiche. Forse che tutto questo non è moneta corrente nella vita di ogni giorno? Forse che non ci è già successo, o abbiamo visto accadere a qualcuno, in qualche modo, di essere stati condannati ad una morte infame? In senso morale, naturalmente, non necessariamente fisico: morti, cioè tolti di mezzo, messi da parte, sorpassati da persone senza scrupoli.
              Gesù non reagisce, Gesù non reagisce mai; piuttosto coglie l’occasione per insegnare che la fede ha qualcosa da dire anche in questioni come il potere, il comando, la politica….
              Gesù non respinge l’ingiustizia, l’invidia, l’iniquità: la accoglie in sé, fisicamente: altrove dice «estinguendo in se stesso l’inimicizia».
              L’immagine fisica è il colpo di lancia che trafigge il suo petto: quel colpo dice l’iniquità del mondo, tutti i giusti schiacciati, dal giusto Abele ai poveri cristi feriti in tutta la storia. La loro vicenda umana è riassunta nel Giusto, l’unico tale, ucciso da noi sulla croce:
              Gesù, pur consapevole di questa mentalità gretta e limitata dei discepoli, non li rifiuta né li rimprovera. Da parte di Gesù non c’è un atteggiamento duro, ma un atteggiamento delicato e offre loro una nuova opportunità.
              Non tutti potranno essere “il più grande”, uno può essere il più grande dell’altro, il più prepotente, finché non arriva un altro più prepotente e dice: «Adesso tocca a me».
              Gesù dice “Se uno vuol essere il primo”: è diverso che “il più grande” perché dire “il più grande” riguarda una gerarchia che Gesù rifiuta completamente nella sua casa. Dobbiamo quindi uscire fuori da una logica di confronti (io sono più bravo di te…).
              Però ci può essere il primato, questo sì, il primo nel senso di essere vicino a lui, il primo anche nel senso di chi sta più vicino agli altri. Il primato lo possono conquistare tutti, dice Gesù, basta che si fanno ultimi e servi di tutti.
              Facciamo un esempio pratico: dovendo salire per un sentiero di montagna uno può stare più avanti rispetto all’altro ma tutti possono arrivare ugualmente in cima.
              Siate l’ultimo di tutti, il servo di tutti, e in questa maniera state vicino a me. Questo è quello che avvicina a Gesù, è l’unica possibilità di stare vicino a lui, è quella di farsi ultimo, servo di tutti, è questo l’ideale che Gesù propone ai discepoli per liberarli dalla loro ambizione.
              Questo è il significato di “rinnegare sé stesso”, che non vuol dire umiliarsi; quando ci dicono che siamo nulla, che non valiamo niente, pregate per chi ci parla: è un poveraccio che non ha capito niente del cristianesimo!
              Noi valiamo molto, agli occhi di Dio siamo preziosi, ma il valore di questa nostra persona lo scopriamo nel momento in cui mettiamo le nostre qualità al servizio e per il bene degli altri (per questo ci diciamo “carismatici”).
              Dio ha una grande stima dell’uomo. Ma l’uomo non capisce che questa stima la si manifesta nella capacità di mettersi al servizio degli altri, o farsi ultimo di tutti, come chiede Gesù, quando dice «se tu ti fai ultimo, sei più vicino a me».
              C’è chi pensa: io vorrei stare vicino a Gesù così mi farò dieci ore davanti al Santissimo! Non è questa la vicinanza a Gesù. Colui che si fa ultimo fra tutti e servitore di tutti ha lo stesso atteggiamento di Gesù, si colloca pertanto nel posto più vicino a Gesù. Questo sì che mi porta al primato.

                1.  L’esempio del bambino come modello di accoglienza in Comunità

                Nell’ambiente palestinese il bambino era considerato privo di diritti e l’elemento più fragile della comunità; inoltre in aramaico, la lingua usata da Gesù, il termine talya significa sia servo che bambino. Si comprende così il legame tra la parola di Gesù sul farsi servi e il gesto di porre il bambino al centro.
                Nella società palestinese del primo secolo il bambino non era tanto un simbolo di innocenza o di assenza da vizi quanto piuttosto di mancanza di stato sociale e di diritti legali.
                Il bambino era una «non-persona» totalmente dipendente dagli altri per il sostentamento e la protezione, e va da sé che uno non poteva aspettarsi nessun vantaggio né sociale né materiale dal mostrarsi gentile verso un bambino.
                Mettendo un bambino in mezzo al circolo dei suoi discepoli Gesù intende chiaramente usare questa azione simbolica per dare una lezione ai suoi discepoli.
                Abbracciando poi il bambino Gesù mostra la sua accettazione del fanciullo (che socialmente è una nullità) come essere degno di rispetto e di cure.
                Ci si chiede cosa facesse questo ragazzino in questa casa con i discepoli. Stava lavorando a ore? Veniva sfruttato? Probabilmente tutto questo e per gli Apostoli era tutto assolutamente normale.
                Quale contra­sto tra Gesù che prende un bambino e lo abbraccia e la so­cietà del tempo. Questo dato caratteristico di Gesù ha stupi­to i suoi discepoli e urtato i suoi contemporanei.
                Mentre i Dodici li ha dovuti chiamare, questo ragazzino si trova quasi per natura accanto a lui.
                Il termine greco tradotto con bambino (paidion), è un diminutivo di pais, che significa figlio, ragazzino o servo, e viene usato per indicare un ragazzo tra i sette e i dodici anni (Marco designa con questo termine la figlia di Giairo, che aveva dodici anni, cfr. Mc 5,39.42).
                Nella lingua italiana il vocabolo equivale a garzone, l’individuo che per età e ruolo sociale è all’ultimo posto nella società ed è incaricato dei lavori meno importanti.
                Il termine paidion racchiude pertanto i due aspetti enunciati prima da Gesù:
                – per la sua età è l’ultimo di tutti;
                – per il suo servizio è il servo di tutti.
                Il suo atteggiamento uguale a quello di Gesù, ultimo e servo di tutti, dimostra che con la denominazione paidion s’intende indicare tutti quelli che seguono da vicino Gesù.
                Il garzone, ultimo e servo di tutti, è modello della sequela, mentre i Dodici, attaccati alla tradizione e alle categorie del giudaismo, non si decidono a seguire Gesù.
                Ponendo il garzone in mezzo, Gesù lo colloca al suo posto, quale manifestazione visibile della gloria divina e come esempio ai Dodici. Gesù abbraccia il ragazzino compiendo, con questo un gesto d’amore, l’identificazione con quelli che portano a compimento il disegno di Dio (“Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre, Mc 3,35).
                Il fanciullo viene posto in mezzo, lo stesso posto occupato da Gesù.
                Gesù stesso presenta loro il suo “candidato” a capogruppo, quello che per lui, nel suo Regno, dovrà essere “il più grande”. Prende un bambino, abbracciandolo lo pone in mezzo al gruppo, e cerca di far capire loro qual è il suo criterio di “grandezza”, di “leadership”, di “autorità”: essere grandi nel Regno di Dio significa essere piccoli agli occhi del mondo.
                Nel gesto dell’abbraccio Gesù si identifica con costui, Gesù si identifica con l’ultimo della società. Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questo individuo si manifesta la presenza di Gesù e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso. L’uomo che si mette a servizio è l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore di Dio.
                Il gesto vale più delle parole, ma oggi quel gesto è frainteso da una sorta di romanticismo e sentimentalismo creato in un’altra epoca ambigua della nostra storia. Per Pietro e i suoi discepoli i bambini sono un nulla, impotenti e fragili (la mortalità infantile era altissima), affidati al mondo femminile, sono l’uomo ancora non realizzato, ultimo fra tutti.
                Gesù abbraccia quell’”umanità incompiuta”, si fa carico di quella condizione infraumana.
                Nel bambino sta abbracciando il mistero della croce, come un servo impotente ed incapace di difesa (Sap 2,19), Gesù è quella Sapienza arrendevole, mite e umile di cuore (Mt 11,29).
                Il gesto simbolico di Gesù diventò per i discepoli molto provocatorio e rivelatorio della stessa missione di Gesù-Servo: nessuno sarà mai un grande finché non impara a farsi piccolo.
                Qual è allora il vero potere? Il vero potere è non avere potere, come il bambino.
                Nei discepoli l’ambizione alla grandezza aveva suscitato rivalità. Gesù li invita a non pensare di scalare la vetta del successo, ma ad abbassarsi al livello del garzone,
                Il discepolo che volontariamente, per amore, pone la sua esistenza a servizio degli altri diventa così l’unico vero santuario dal quale s’irradia l’amore del Padre.
                In questo caso accogliere significa prendersi cura dei più deboli e dei più bisognosi per proteggerli e aiutarli, come se si trattasse di Cristo stesso.
                L’espressione chiave è «nel mio [Gesù] nome», che verrà ripresa come termine di collegamento nell’episodio seguente (vedi 9,38: «nel tuo [Gesù] nome»).
                Nel pensiero di Gesù anche la gente apparentemente meno significativa è importante perché anche (e specialmente) loro portano il nome di Gesù e appartengono a lui.

                1. Conclusioni

                 La Comunità non va tirata dall’alto, ma va sospinta dal basso!
                Antidoto a tutte le nostre divisioni è il dialogo e la correzione fraterna.
                Papa Benedetto XVI ha detto di questo metodo evangelico di aiuto ai fratelli: «L’amore fraterno comporta anche un senso di responsabilità reciproca, per cui, se il mio fratello commette una colpa contro di me, io devo usare carità verso di lui e, prima di tutto, parlargli personalmente, facendogli presente che ciò che ha detto o fatto non è buono. Questo modo di agire si chiama correzione fraterna: essa non è una reazione all’offesa subita, ma è mossa dall’amore per il proprio fratello».
                Papa Francesco ha indicato la ricchezza della correzione fraterna: “La correzione fraterna è un atto per guarire il corpo della Chiesa. C’è un buco, lì, nel tessuto della Chiesa che bisogna ricucire. E come le mamme e le nonne, quando ricuciono, lo fanno con tanta delicatezza, così si deve fare la correzione fraterna. Se tu non sei capace di farla con amore, con carità, nella verità e con umiltà, tu farai un’offesa, una distruzione al cuore di quella persona, tu farai una chiacchiera in più, che ferisce, e tu diventerai un cieco ipocrita, come dice Gesù. ‘Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio….’. Ipocrita! Riconosci che tu sei più peccatore dell’altro, ma che tu come fratello devi aiutare a correggere l’altro”.
                Chi metterebbe al centro Gesù oggi? Chi abbraccerebbe in mezzo al gruppo dei discepoli che discutono di potere, di onori e (inevitabilmente) di soldi? Il suo gesto è altamente provocatorio, ma non si ferma ad una semplice denuncia di una mentalità sbagliata.
                Se Gesù fosse davanti a me chi abbraccerebbe? Chi mi metterebbe davanti per dirmi “se accogli lui accogli anche me e colui che mi ha mandato”?
                Chi sono i piccoli che io dimentico? Chi sono coloro che io giudico indegni di far parte della mia vita e che tengo a debita distanza perché potrebbero esser d’intralcio alla mia carriera, alla mia libertà?
                Gli atteggiamenti dei discepoli di Gesù, rispecchiano in tutto quelli degli uomini e delle donne del nostro tempo. Possiamo dire, che come oggi, così ai tempi di Gesù risultava difficile comprendere la parola umiltà.
                L’umile è colui che riconosce la propria debolezza. E’ colui che riconosce la propria identità di creatura che ha bisogno del suo Creatore. L’umile è colui che non si stanca di fronte alla prepotenza e ai soprusi, e nella pazienza e nella fiducia nell’opera dello Spirito Santo, attende un cuore che possa vivere una metamorfosi, trasformandosi, da cuore di pietra in cuore di carne.
                L’umile è colui che ha la benevolenza di quel Dio che non solo “umiliò se stesso”, ma divenne per noi guida e modello di ogni uomo e donna di buona volontà.
                Siamo consapevoli che ragionare secondo questa pagina di Vangelo ancora oggi è una rivoluzione, una rivoluzione che però non si fa con violenze esteriori, ma parte dall’interno dell’uomo, con un lavoro personale, con un reale cambiamento del cuore, con la rinuncia a dominare gli altri, asservendoli ai propri bisogni. Secondo il vangelo di Gesù primi si può essere solo nel servizio, nel dono di sé, nel gesto d’amore.
                Volete essere i primi? dice Gesù. Siate gli ultimi! Volete essere grandi? Fatevi piccoli! Volete dominare? Fatevi servi! È un paradosso che non si fonda su considerazioni teoriche, ma sull’esempio concreto che il servo sofferente continua ad offrire ai suoi.
                E noi, di che cosa discutiamo lungo la strada della nostra vita? Forse ci troveremmo molto imbarazzati, se Gesù interrogasse anche noi in questo modo.
                Parlando di ciò che più gli sta a cuore, ciascuno rivela il proprio intimo. Qualcuno sogna di avere potere e autorità? Si chieda piuttosto in che modo potrà meglio servire gli altri, in che modo potrà andare incontro a chi ha bisogno d’aiuto.
                Come i genitori, che dovrebbero quasi istintivamente mettere tutta la loro autorità al servizio dei figli, subordinandola al loro bene, così dovrebbe fare ogni cristiano desideroso di conformarsi al modo di essere di Gesù, accogliendo come suoi inviati i piccoli e i deboli.
                Non c’è modo migliore per raggiungerlo e per unirsi a lui in quel viaggio attraverso la Galilea che egli compie in segreto con i suoi.