Padre nostro che sei nei cieli  – Parte I

Riflessioni all’indomani delle modifiche alla preghiera del Padre Nostro

a cura di Mons. Ivan Santus

Queste poche righe, non si offrono come un commento del Padre Nostro, in chiave esegetica o spirituale, ma intendono piuttosto riscoprire insieme gli inesauribili tesori di una preghiera che ben a ragione è stata definita breviarium totus Evangelii: Il Padre Nostro, infatti, riserva sempre delle sorprese, è sempre nuovo, e spesso non arriviamo a coglierne tutte le ricchezze.

In tale spirito vogliamo riflettere sul Padre Nostro, cercando il significato delle singole parole, delle singole domande, e considerandolo nel quadro di un cammino di ricerca della volontà di Dio. In particolare, cercheremo di approfondire le espressioni: «rimetti a noi i nostri debiti come noi anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» e «non abbandonarci alla tentazione». Ci faremo aiutare da alcune riflessioni e studi del Cardinal Carlo Maria Martini e dal Cardinal Giacomo Biffi, che accompagnarono il lungo cammino di riformulazione della preghiera in seno alla Conferenza Episcopale Italiana.

Per entrare nel significato e nel senso delle nuove espressioni, ci è forse utile andare all’inizio della preghiera del cristiano; il Padre nostro, infatti, comincia con la parola «Padre», il che non è usuale. Nessun salmo inizia così e se in alcune preghiere dei testi sacri ci si rivolge talora a Dio come Padre, un inizio così perentorio è unico, pur se Matteo lo allarga retoricamente dicendo, in maniera più solenne rispetto alla formulazione di Luca, «Padre nostro che sei nei cieli».

La paternità di Dio, che ci viene donata nel battesimo, è allo stesso tempo puntuale e insieme perenne, e non la riattualizziamo ogni volta che entriamo in preghiera, sapendo che assume una forza particolare allorché prendiamo delle decisioni importanti. Il Signore in quel momento ci dà, come dice san Tommaso d’Aquino, un supplemento di Spirito Santo, quindi una nuova prova della sua paternità. Nella nostra vita dobbiamo affrontare tante situazioni di questo tipo: per esempio quanto uno assume una responsabilità, o è chiamato a guidare una famiglia, un’azienda, un gruppo; o quando nel segreto compiamo un gesto di perdono, di misericordia, di fede, di speranza, allora la paternità di Dio si manifesta in noi.

Ci soffermiamo anche un istante sulle parole «che si nei cieli». E’ una espressione che può avere molti significati, infatti il rapporto cielo-terra è evocato nei Vangeli molte volte: «Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo» (Mt. 18,18); «Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nel cielo ve lo concederà» (v.19); «tutto ciò che farete nel segreto, il Padre che è nei cieli lo vedrà e ricompenserà» (cfr 6,4.6.18).

«Che sei nei cieli» non è dunque una semplice apposizione. Certamente serve per distinguere il Padre celeste da quello terreno, ma soprattutto invochiamo con queste parole il Padre che vive nel mondo della trascendenza, nel mondo definitivo, nel mondo delle cose che non passano mai più; quel Padre che vive nella luce perenne, in cui non c’è più ambiguità, non c’è più insicurezza, non c’è più peccato. Il cielo è pure il luogo della ricompensa dove la volontà di Dio si compie pienamente, in maniera perfetta. Questo aspetto della preghiera ci colma di grande pace. Di fatto, nella vita quotidiana, non siamo mai in una situazione chiara, viviamo sempre sfiorati, talvolta coinvolti dal compromesso; la nostra è una situazione oscura, in cui non si sa mai bene se operiamo davvero secondo il Vangelo oppure no; siamo ogni giorno a rischio di ambiguità. Dicendo «Padre nostro che sei cieli», confessiamo però che c’è un luogo dove tutto è chiaro, luminoso, limpido, dove tutto è giusto e vero. Se ci guardiamo intorno, siamo come affaticati, appesantiti e talora oppressi, dal cumulo di ingiustizie che ci circondano e delle quali, volere o no, siamo parte; proclamando «Padre che sei nei cieli» affermiamo che c’è una situazione in cui non c’è più ingiustizia, né lacrime, né amarezze, né incomprensione, né malinteso, e tutto è chiarezza, bellezza purità. L’invocazione iniziale del Padre Nostro è dunque capace di nutrire, sostenere, confortare il nostro animo.

Tutti noi, come il discepolo innominato dal Vangelo, abbiamo detto tante volte: «Signore, insegnaci a pregare!». Mentre facevamo questa domanda, che cosa chiedevamo? Forse desideravamo anzitutto raggiungere quell’unità interiore, quel raccoglimento, quella gioia che è caratteristica di una preghiera profonda. Si tratta di atteggiamenti positivi e utili, ma siamo ancora nell’ambito di una preghiera psicologica, tesa ottenere alcuni benefici: imparare ad essere calmo, tranquillo, raccolto, pacificato, coordinato, senza una sarabanda di pensieri che mi frulla per la testa.

Noi vogliamo tuttavia chiedere a Gesù di insegnarci a pregare nello Spirito, soprattutto di insegnarci la disposizione interiore e quali sono le richieste da presentare. Quando iniziamo la preghiera dovremmo aprire il testo della Lettera ai Romani, là dove si dice che nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare (cfr, 8.26) e dovremmo dire: Signore, vedi che non so pregare. Però tu hai promesso lo Spirito in aiuto alla mia debolezza e lo Spirito intercede per me «con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (8,26.27). (Continua)